Siamo naufraghi a casa nostra
Minuscoli orsi di petrolio
Sfidano il tempo
Miniature di tulipani e
Più lontano ancora
Cavalli nani.
Il vecchio Lakota era una saggio. Sapeva che il cuore dell’uomo lontano dalla natura s’indurisce; sapeva che l’oblìo del rispetto dovuto a ciò che cresce e a ciò che vive porta ugualmente alla perdita del rispetto per l’uomo. E per questo motivo teneva i giovani sotto la dolce influenza della natura
Dal libro Piedi nudi sulla terra sacra,
testi raccolti da T.C. McLuhan, 1971.
Passeggiamo noi, oggi, a piedi nudi sull’asfalto. Regione Rhône-Alpes, dipartimento della Savoia, i 14.000 morti francesi a causa del Covid-19 sono lontani da qui, dalla nostra isola giardino, dal nostro eremo d’orto. L’effluvio dei barbecue cavalca le aride brezze primaverili, due pesantissimi elicotteri militari passano lenti sopra la mia testa mentre gratto la terra. La popolazione si sottomette placidamente agl’ordini dei prefetti, alle direttive dello Stato; si manifesta finanche la stupida ipocrisia di chi vuole salvare il mondo restandosene in panciolle a casa propria, di fatto, talune locandine appaiono affisse ai cancelli delle abitazioni: “Restate a casa! Salvare delle vite non è mai stato così semplice.” Segue cancelletto, restate a casa. Sono probabilmente gli stessi sventurati che credono di salvare il pianeta con un clic, finanziando la semina d’alberi in esotici angoli del globo. La gente s’accartoccia nel fetale individualismo casalingo, sostenuta in questa dura corvée da ludici dispositivi tecnologici. C’è da chiedersi cosa ne sarebbe d’una società messa in quarantena e privata dell’internet. Piedi nudi sull’asfalto, molte meno automobili in circolazione, il cielo è d’un terso dubbioso. Per la strada regna una vaga diffidenza portata all’eccesso dalla psicosi, Passeggiano le famiglie all’aria aperta, protetti inutilmente dalle mascherine, la paura mette a nudo l’egoismo che negli Stati Uniti tocca il culmine con l’esplosione di vendite di bunker. Sulla statale ruggisce una banda di ceffi in motocross su una sola ruota, capelli al vento, sfidano il controllo. Nella vallée de la Maurienne hanno trovato un bar clandestino, purtroppo focolaio d’infezione. Il fiume che scorre a pochi passi da casa si popola ed i luoghi a noi sacri vengono violentati da volgari grida mascoline, spari di pistole ad aria compressa, fuochi oleosi ed ogni sorta di schifezza post barbecue. Le anatre passano altrove. Fuggiamo così in recondite latèbre boschive ed onoriamo la nuova terra intrecciando frasche d’alberi e tessendo l’edera. Gli argini della Leysse, fiume maggiore, diventano luoghi di clandestinità, d’evasione. In città, una pattuglia di vigili urbani è uscita dal nulla e si è precipitata su una coppia d’amici che sedeva sulla scalinata del municipio; in tutta evidenza il giochetto delle telecamere ha trovato un suo eccitante impiego in tempi di quarantena. La raccolta differenziata è momentaneamente sospesa e all’inceneritore è festa grande (ma nessuno ne è al corrente), l’ordine vuole che in ragione di pericoli di contagio, non si possano maneggiare rifiuti. In farmacia, per lo stesso motivo, non accettano più le merci di resa nonostante gli scaffali siano ben riforniti e tutto sia a portata di mano; ogni pretesto è buono insomma per gonfiare gl’utili. Dettagli. Si evoca la possibilità, per il governo, di tracciare via GPS gli spostamenti delle persone infette per poter, a quanto pare, identificare le aree di contagio: a quest’ora, l’obiettivo ultimo di tutta la tecnologia satellitare si manifesta senza vergogna. Prigionieri delle città, prigionieri dei balconi, ogni sera si percuotono le sbarre delle celle per festeggiare lo sforzo del personale medico ospedaliero, esso fin’ora ignorato e trattato con disprezzo dal governo nonostante i precedenti mesi di vasti scioperi per denunciare la selvaggia privatizzazione dell’apparato statale e dell’impoverimento dei reparti.
Questa mattina mi sono accaduti due fatti inediti destinati ad avere un seguito: una prima boriosa mosca di stagione ha avuto l’ardire di svegliarmi posandosi sulle ciglia, prodroma di un’afosa e fatale estate. Il secondo, un po’ meno romantico, è foriero di tempesta: accompagnato da un fastidioso sibilo serpico, un drone ha sorvolato la nostra dimora, vagando per i cieli del quartiere. Nel mio calco cranico è colato odio come acciaio fuso, ho alzato il dito medio, alto e fiero. L’apparecchio si è allora fermato poco lontano, sicuramente per ingrandire la mia immagine. Appello alla comunità umana, alla resistenza, ai luddisti, agli eretici, a chiunque abbia un briciolo di buon senso: siate ostili verso questa viscida tecnologia tumorale, essa ci divide, mostrate acerrima e totale opposizione!
L’arco e la fionda torneranno nelle nostre mani.
Come il cavolo e l’ortica.