Si fa un gran parlare di mascherine, ma con tanta confusione attorno al loro scopo e corretto utilizzo. Innanzitutto occorre distinguere tra i diversi tipi reperibili. Le informazioni si possono ricavare dallo stesso sito del Ministero della Salute e dai siti delle aziende che le commercializzano.
Le mascherine chirurgiche sono pensate per limitare la trasmissione di agenti infettivi da parte del personale ai pazienti durante operazioni chirurgiche e altre attività mediche. La normativa europea individua tre classi di mascherine: FFP1, FFP2 e FFP3. Di queste solo l’ultima, FFP3, protegge le vie respiratorie anche da virus, con una capacità filtrante del 99% rispetto a quello che arriva dall’ambiente esterno.
Le cosiddette mascherine realizzate da Grafica Veneta per la Regione Veneto e distribuite dalla Protezione Civile non sono certificate per l’utilizzo sanitario. Andrebbero chiamate “schermi filtranti”, non molto diversi quindi da qualunque rimedio fai-da-te (una sciarpa, una mascherina artigianale, etc.) in quanto a efficacia nel trattenere ipotetiche particelle virali.
Se pensiamo inoltre che l’utilizzo di guanti monouso prima di entrare nei negozi è sconsigliato per ridurre le possibilità di contaminazione dei guanti stessi, perché si ribadisce tanto l’obbligo di portare guanti e mascherina nel preciso momento in cui si esce per strada? E perché adesso, che è stato superato il picco del contagio?
Il governatore Zaia, in preda al tormento del Veneto fermo, ha voluto liquidare la questione dichiarando di aver letto «una rivista scientifica che dice che qualsiasi dispositivo di protezione di naso e bocca è sufficiente e utile per non diffondere il contagio.». Anche quelle «in tessuto», basta che si ricominci. La parziale riapertura in Veneto è stata addirittura anticipata rispetto a quella nazionale.
Dimostrando così che guanti e mascherine sono prima di tutto un obbligo per il bene di una ripresa economica, non certo della salute di nessuno. Un escamotage per tornare alla normalità o perlomeno alla normalità che interessa a chi regge il timone di questa barca che fa acqua da tutte le parti: tornare al lavoro sfruttato, all’acquisto e al consumo finalizzati all’introito in primis delle grandi imprese. *Se c’è una cosa chiara nelle dichiarazioni di chi governa, è che la normalità a cui si riferiscono è fatta di industriali e ricchi, dando l’idea che senza di loro saremmo spacciati. Dell’autonomia e dell’autodeterminazione sia alimentare che sociale nessuna traccia. Non a caso l’accesso alle terre coltivate per l’autosussistenza è stato inizialmente vietato e l’unico metodo per sfamarsi è stato il supermercato, nonostante favorisse l’assembramento. Ci dicono poi che si deve aspettare per non correre il rischio di vanificare gli sforzi fatti, quando il numero dei contagiati ha segnato un aumento più rapido in quelle province in cui industrie non si sono fermate. Se a questo aggiungiamo la situazione drammatica delle carceri, dei centri per l’espulsione, delle case di cura, cioè di tutte quelle strutture dove lo Stato ammassa centinaia di persone, sembra il minimo porsi alcune domande: a quali sforzi si stanno riferendo? Quelli di un sistema che cerca di salvarsi sfruttando e reprimendo ancora di più? Chi sta realmente mettendo a repentaglio la vita di tutti mantenendo vivi dei veri e propri focolai?
Distanza fisica e dispositivi di protezione individuale
La questione dei dispositivi di protezione individuale (DPI) per contrastare il virus è stata inizialmente riferita all’ambito lavorativo, al supermercato, ai negozi, a quei contesti insomma dove vi è l’impossibilità materiale di applicare l’unico metodo che sembra certo per diminuire la trasmissione del virus, cioè il famoso “distanziamento fisico” che secondo l’OMS corrisponde a un metro o due di distanza (la valutazione è cambiata nel tempo) da chiunque tossisca e starnutisca. Tutto il resto è speculazione politica bella e buona. L’obbligo dei DPI in altri contesti all’aperto (passeggiate, corse, uscite col cane) sembra non solo inutile ma anche un perfetto esercizio di obbedienza all’autorità impartito alla popolazione, facendo dell’emergenza sanitaria un’emergenza securitaria