l covid-19, come tutti i virus, segue i vettori e le velocità della società che lo veicola. I rapporti di potere e il tipo di organizzazione sociale formano la risposta che una popolazione può dare ad una epidemia. Enormi ospedali dove raggruppare malati diventano, in tempi di epidemia, spaventosi focolai che mettono a repentaglio vite di pazienti non contagiati e del personale medico. L’organizzazione di queste strutture è poi aziendale, per cui l’ospedale non è propriamente un luogo per la salute pubblica, ma un nodo economico da gestire in quanto tale. Vale a dire che, alla stregua di quelli privati, è organizzato e specializzato nei settori più remunerativi e di convenienza piuttosto che in relazione a reali bisogni sanitari della popolazione. Così assistiamo al collasso del bergamasco, dove pazienti anziani non vengono rianimati e muoiono senza neanche il conforto di cure palliative. La scelta di privilegiare la maggior speranza di vita, dove un 60enne con problemi pregressi viene sacrificato per un 50enne senza patologie, insieme alla fatica a fornire servizi essenziali come l’ostetricia, e alla scomparsa di una cinquantina di medici dall’inizio dell’epidemia, sono drammi che portano a chiedersi quale sia la vera minaccia della salute pubblica.
Ci accorgiamo forse che la salute pubblica è un ideale perlopiù estinto. Negli anni il welfare pubblico sanitario e previdenziale ha avuto meno risorse a disposizione e le iniziative liberali in forma di assistenza e benessere si sono moltiplicate, sulla falsa riga del sistema americano (con conseguente chiusura di ospedali e riduzione dei posti letto). Intanto le assicurazioni sanitarie dispensano polizze vita e assicurazioni COVID-19 direttamente ai cittadini che se li possono permettere. Un modello secondo cui ognuno pensa egoisticamente di raggiungere una “sicurezza” personale o familiare: io speriamo che me la cavo. Ospedali trasformati in centri commerciali a tema, assicurazioni sanitarie che speculano sull’ipocondria che alimentano e strutture di cura private per ricchi o inclini all’indebitamento, sono strumenti di disuguaglianza sociale e di consumo sanitario.
La salute pubblica non è poi responsabilità riservata agli ospedali. La concentrazione di popolazione anziana che comportano le case di riposo, oltre a dire molto sui rapporti sociali che siamo spinti a vivere, sono luoghi di enorme esposizione al contagio da parte degli ospiti. A Lodi una struttura che ne ospitava 250 ne ha visti morire quasi una quarantina. Un’altra a Villa Bartolomea conta 5 decessi di persone positive, oltre a 36 anziani e 12 dipendenti contagiati. Nelle carceri la rivolta è esplosa per il rischio di contagio e mentre la situazione interna viene silenziata, i prigionieri rimangono in celle sovrappopolate. Sorte simile è toccata a chi non ha visto la propria fabbrica fermarsi, esponendosi quotidianamente al contagio. E intanto si criminalizza la striminzita mobilità dei singoli per le strade attraverso smisurati controlli cittadini, caccia agli untori, ammende e multe. Gran parte della popolazione paga non tanto un’epidemia, ma i danni di un’organizzazione sociale colpita da un’epidemia [e che non si è mai preoccupata dei pericoli per la salute collettiva rappresentati dall’inquinamento e dalla devastazione ambientale.] Sia ora con il rischio del contagio e della morte senza assistenza, sia domani e dopodomani per pagare i debiti di una classe di assassini.